Le minuscole borgate della Ramats di Chiomonte e di Cels di Exilles sembrano guardare dall’alto la Valsusa, sognanti e lontane, abbracciate dai loro vigneti, fiere della pietra antica delle loro case.
C’erano stati secoli di splendore, dapprima sotto la Novalesa, poi, dal XIII secolo, sotto la giurisdizione della Prevostura di Oulx, in cui il sole abbracciava i terrazzamenti coltivati a segale e frumento, e nell’autunno i pendii si ricoprivano dell’ombra violetta delle fioriture di zafferano.
Fiori lasciati in eredità dai Mori, Al-safaran, oro più prezioso dell’oro sulle bilance degli speziali, e sulle tavolozze dei pittori, disposti a spendere fortune per i pigmenti più ricercati, in grado di consegnarli alla gloria.
Anno dopo anno le estati erano diventate sempre più aride, la terra più polverosa, la rete di canali d’irrigazione non portava più acqua sufficiente ai campi…
I Chiomontini sapevano dell’acqua che scorreva sul versante opposto del Niblè, giù verso il fondo della Val Clarea: il Rio Tiraculo dal nome prosaico avrebbe riportato la vita sui terrazzi brulli, se soltanto fosse stato possibile perforare la cresta della montagna… Qualcuno ci aveva provato, ma non era possibile, nessun uomo avrebbe potuto.
L’idea di scavare lunghe gallerie per attraversare le montagne non era nuova, infatti nel 1479 vennero iniziati i lavori per la realizzazione del Buco di Viso, il primo traforo alpino, che permise di mettere in comunicazione la Valle Po con la vallata francese del Queyras.
Colombano, il figlio di Giovanni Romean, era nato nel 1470, e, come tanti altri ragazzi, era emigrato a cercare fortuna in Provenza, al di là delle montagne.
Era diventato minatore, a St. Gilles, e l’oscura profondità della roccia gli era diventata familiare e amica: il suono diverso, la diversa resistenza della pietra sotto il piccone gli parlavano, sentiva la voce dell’acqua nascosta nelle falde più remote. Ogni miniera aveva parole diverse per Colombano, e lui le ascoltava, portando alla luce i doni della Terra.
Era arrivato il tempo del ritorno, il ragazzo mingherlino che tanti anni prima era fuggito dalla fame stava tornando a casa, con i capelli grigi e la barba lunga, e le mani che riaprivano l’uscio della casa dei Romean erano ruvide e nere come la roccia. In quel preciso momento sapeva già cosa fare: avrebbe proseguito l'opera iniziata da altri, ma l’avrebbe portata a termine.
Il notaio Jehan Rostollan non riusciva a credere alle parole che stava scrivendo: "Conventio facturae aqueducti de Tullis inter habitantes de Celsis et Ramatis cum Colombano Romeani"…Un acquedotto?! Da Touilles? Da solo?!
Colombano era risoluto: avrebbe fatto tutto da solo, al massimo qualche ragazzo coi "garbin", le gerle per portare il materiale di sterro fuori dalla galleria.
Per tutta la durata del lavoro, le due comunità di Cels e di Ramats avrebbero dovuto occuparsi del suo sostentamento, fornendogli quotidianamente vino e pane di segale, e gli avrebbero versato cinque fiorini per ogni tesa (2 m) di galleria ultimata.
Per otto anni, armato di piccone, il minatore aveva continuato a procedere attraverso gli strati di roccia, solo come un eremita. Aveva scavato piccole nicchie nella parete del cunicolo, per appoggiarvi le lucerne, aveva graffito volti umani, scarabocchiato parole che la solitudine gli sussurrava nelle orecchie, insistente come i colpi del piccone sulla pietra.
Era un giorno di primavera del 1533 quando i giovani che facevano la spola con le gerle l’avevano visto affacciarsi all’imboccatura della galleria, urlando e sbracciandosi. Si erano allontanati con tutta la velocità che le gambe permettevano, e già sentivano rimbombare lo scroscio dell’acqua.
Acqua che usciva schiumando e che sembrava non dovesse fermarsi mai, che riempiva i canali e allagava gli orti, e tutti correvano ad immergerci chi i piedi e chi le mani, per sentire che era proprio vera.
Quando Colombano scese tra le antiche case grigie, giù per i viottoli acciottolati, lo aspettavano , perché era il loro eroe. Non avrebbe più dovuto preoccuparsi di nulla, se ne sarebbero presi cura, per sempre.
Era come un fantasma polveroso, una creatura di un mondo nascosto, ma finalmente poteva tornare alla vita: riposare in un letto, scaldarsi le ossa al sole dell’estate, e d’inverno avvolgersi in un lungo mantello, nei giorni di festa mangiare carne di bestia grossa, i famosi vitelli della Ramats ingrassati per i signori.
Più nulla si sa del minatore Romean, né alcun documento ne fa parola: semplicemente non lo si vide più, e i sognatori pensano che abbia inseguito un’altra sfida.
Qualcuno invece ritiene che gli agi e l'abbondanza avessero avuto la meglio sulla sua rude tempra, e infine i più disincantati insinuano che i contadini delle due borgate, stufi di provvedergli cibo e bevanda, avessero deciso di accelerare il suo transito terreno.
Noi siamo, ovviamente, sognatori, e chiederemo al vento di raccontarci il finale di questa storia…