Grande partecipazione all’Auditorium Santo Volto di Torino in occasione della XXXIV Giornata Caritas. Per i ministri straordinari della comunione ed i volontari di enti caritativi quella di sabato 18 marzo è stata una giornata intensa e soprattutto fruttuosa, giusto in virtù del tema trattato.
«Gemme di carità che Dio fa sbocciare», è infatti il titolo della riflessione che ha fatto riferimento ad un passo del Vangelo, tratto dalla Prima lettera di San Paolo ai Corinzi: «Né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere» (1Cor. 3:7).
A dare il benvenuto alla vasta platea è stato il coro della scuola primaria e media dell’Istituto Sant’Anna di Torino, diretto dalla professoressa Maria Grazia Longo, con l’accompagnamento alla tastiera della talentuosa pianista Giorgia Talarico, che ha regalato emozioni in musica.
Il convegno è stato presentato da Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana, che ha dato il saluto, proiettando sullo schermo le figure di personaggi di un passato recente, come il compianto cardinale Severino Poletto, che stanno alle radici del nostro tempo, portando abbondanti frutti di carità e amore.
I lavori si sono aperti con la preghiera a cui è seguita l’introduzione dell’arcivescovo di Torino, monsignor Roberto Repole, che ha commentato i numeri del volontariato sociale sul territorio: 350 servizi caritas presso enti o parrocchie, oltre mille volontari e circa 70mila persone indigenti visitate e aiutate.
La presenza all’appuntamento della volontaria braidese Claudia Alessandri ha acceso i riflettori anche sull’Emporio della solidarietà di Bra, una realtà concreta di sussistenza, attiva nei locali della parrocchia di San Giovanni Battista e volta ad arginare le difficoltà economiche delle famiglie in tempo di crisi e le forme più gravi di indigenza delle persone meno fortunate.
Per monsignor Repole non si può prescindere da questo tipo di realtà: «Al fine dell’esistenza di una società compatta, dove le diversità non sono una minaccia, ma rappresentano addirittura una ricchezza, c’è bisogno della generosità gratuita di molte persone. Tutti siamo chiamati a leggere con spirito profetico ciò che siamo e capire che seme possiamo offrire in questa nostra società, per coltivarlo, per custodirlo, per farlo crescere e non disperderlo».
Ma con delle avvertenze: «Questo va fatto senza autocompiacerci e, anzi, leggendo tutto ciò davanti al Vangelo. Perché nel mondo caritativo della Chiesa corriamo due tentazioni. La prima è quella che ci mette spesso davanti papa Francesco quando parla del neopelagianesimo incalzante, ovvero quella stortura del cristianesimo in cui si pensava che ciò che conta fondamentalmente è ciò che facciamo noi e che se questo non funziona Dio in qualche modo viene bloccato. L’altro pericolo che possiamo correre è quello di una iper-modernizzazione delle nostre strutture e attività caritative che rischia di trasformare la Caritas in un compartimento stagno della vita della Chiesa».
Aggiungendo: «Uno sguardo lucido su queste due tentazioni serve a recuperare il senso che la Caritas è innanzitutto una questione di Dio, non una questione nostra. È Dio che è carità e che si china su di noi con tutta la carità di cui è capace. Quindi non c’è Caritas o servizio nella Chiesa che non nasca da un sentimento di gratitudine per la carità di Dio per me: non come qualcosa che è avvenuto una volta nella vita, ma come qualcosa che avviene permanentemente, che sta avvenendo adesso. Questo è qualcosa già inscritto nel cuore del servizio caritativo della Chiesa. Ed è interessante che la parola latina “caritas” qualche volta sia scritta “charitas”, che non è un errore, ma un calco del greco “charis”, che significa “grazia”, a dire che la prima caritas è la grazia di Dio per noi. Siamo innanzitutto noi il seme della caritas di Dio, senza la quale non ci sarebbe neanche la nostra vita. E questa caritas è vera nella misura in cui ci guardiamo con carità nei nostri rapporti fraterni. Che cosa possiamo offrire agli altri se anzitutto noi non ci guardiamo con uno spirito di carità, frutto di quella carità che riceviamo dal Signore?».
Una domanda stimolante affrontata da padre Beppe Giunti, frate francescano conventuale, che ha portato come risposta don Tonino Bello, noto per il suo impegno incredibile e profetico per la pace, per gli ultimi, prima da parroco e poi da vescovo. Concludendo con un suo insegnamento: «Il volontariato è libero, è leggero, altrimenti non è volontariato. Imitando don Tonino Bello, ogni volta che stiamo per preparare un progetto od organizzare qualcosa, abituiamoci a cominciare sempre con una lunga preghiera davanti all’Eucaristia».
Al centro della prima parte del convegno è stato un confronto con la Fraternità della Visitazione sorta a Pian di Scò (Arezzo), presentata da suor Simona Cherici che ha parlato a cuore aperto dell’assistenza che offre a donne vittime di violenza ed ai loro figli. Iniziare un’opera di questo tipo, ha ricordato, è stato una follia ma, come diceva Madeleine Delbrêl, assistente sociale e mistica francese (1904-1964), bisogna essere un po’ folli per essere saggi. «Fidiamoci della follia di amare», ha detto e così è stato. Dalla fondazione della casa famiglia ad oggi sono stati tanti i passaggi e molte donne hanno trovato l’amore vero, non il surrogato offerto dalla società moderna.
Degni di nota, nella seconda parte dell’incontro, gli interventi di Alessandro Brunatti, direttore della Caritas di Susa e di Donatella Turri, del team di direzione della Caritas italiana che hanno illustrato aspetti tecnici e pratici derivanti dall’esperienza diretta sul campo, dove vale la sinergia con enti ed istituzioni.
Proprio gli aspetti concreti dell’impegno quotidiano a favore di chi è più nel bisogno hanno toccato le corde dell’anima. Alcuni esempi? Il dopo scuola organizzato a Cavallermaggiore da volontari che aiutano giovani e giovanissimi segnalati dagli istituti e assistenti sociali a recuperare terreno nelle materie in cui hanno più difficoltà.
Oppure il modello di Kevin che dal buio della vita di strada è passato alla luce data dall’accoglienza dei frati e di un lavoro con contratto in cui esprime la gioia di chi si è rimboccato le maniche e ce l’ha fatta, anche grazie a chi ha saputo vedere in lui una gemma di bene e ci ha scommesso.
E c’è stato da tenersi forte quando la parola è passata a chi ha fatto l’esperienza del carcere, che ha portato la testimonianza di chi fosse prima di oggi e del percorso di maturazione che l’ha portato ad un cambiamento di vita radicale, realizzato con coraggio, fiducia e buona volontà.
Tutti questi “germogli” di carità sono stati irradiati dalla fede e bagnati dalla preghiera, come quella che ci ha lasciato proprio monsignor Tonino Bello che è una vera e propria supplica a Dio: «Aiutaci a comprendere che additare le gemme che spuntano sui rami vale più che piangere sulle foglie che cadono. E infondici la sicurezza di chi già vede l’oriente incendiarsi ai primi raggi del sole».