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Copertina | 01 novembre 2023, 00:00

Franca Fagioli: “La nostra missione è prenderci cura dei pazienti piu’ fragili, i bambini. Sono loro il nostro futuro”

La direttrice del Dipartimento Patologia e cura del bambino all’ospedale Regina Margherita della Città della Salute di Torino: “Ci facciamo carico dei piccoli, ma anche delle loro famiglie. E non li abbandoniamo mai. Che bello quando ci scrivono che si sono sposati o che si sono laureati, magari in pediatria”

Franca Fagioli: “La nostra missione è prenderci cura dei pazienti piu’ fragili, i bambini. Sono loro il nostro futuro”

L’ospedale come luogo di cura, di speranza, ma anche di paura, timori e dolore. Il luogo in cui quotidianamente si lotta per avere la meglio sulla malattia, per difendere, inseguire e celebrare la vita. Una battaglia che assume significati ancora più decisivi se, dentro il letto del reparto, c’è un bambino. Magari un neonato. È questa la battaglia che ha scelto di combattere Franca Fagioli, 61 anni, direttrice del Dipartimento Patologia e cura del bambino all'ospedale Regina Margherita della Città della Salute di Torino. Affacciato sul Po, a pochi passi dalla collina: un luogo in cui tantissime famiglie, ogni anno, affidano la cura e i sogni dei propri piccoli.

Dottoressa Fagioli, cosa vuol dire, per lei, lavorare tutti i giorni in quello che i torinesi chiamano “il Regina”?

“Vuol dire dedicarsi quotidianamente ai pazienti più fragili che abbiamo: il bambino malato è infatti il massimo di questa condizione, ma rappresenta anche il nostro futuro. Nel momento in cui sono in cura da noi, sono bambini che sono esposti, vulnerabili. E la loro può essere una fragilità fisica, ma anche psicologica. Può determinare effetti anche molto diversi, in ciascuno di loro: per questo dobbiamo essere pronti a tutto. A curare l'evento acuto, ma anche a farci carico di quei bambini che potrebbero diventare pazienti cronici e quindi accompagnarli lungo percorsi complessi".

Viviamo in un mondo, però, in cui essere bambini è sempre più difficile, ma pure raro. Lo si percepisce anche in un ospedale come il vostro?

“Anche noi osserviamo il cambiamento fortissimo che sta vivendo la società, così come la pediatria. Siamo un Paese ormai a bassissima natalità e i dati in questo senso sono drammatici. Ma a fronte di questo calo di bambini nati, è cresciuta in modo notevole la probabilità per loro di guarire e di non morire. Questo grazie alle nuove tecnologie e alle acquisizioni che ci permettono di far nascere e far proseguire il percorso di vita a neonati prematuri che una volta non ce l’avrebbero mai fatta. Possiamo far guarire bambini che in passato non potevano farlo. E possiamo effettuare screening che ci permettono di intervenire anche prima dello sviluppo della malattia. Il nostro è un ospedale che deve esser avanzatissimo dal punto di vista delle conoscenze, ma che impone anche di essere all’altezza dal punto di vista umano ed empatico, visto che ci confrontiamo tutti i giorni con bambini di ogni fascia ed età".

Trattandosi di bambini, è necessario anche rapportarsi con genitori e famiglie.

"Certo. E soprattutto in certe fasce di età è inevitabile interfacciarsi direttamente con genitori o care-giver, perché i bambini, magari neonati, non sono in grado di esprimersi, se non con quello che permette loro il corpo. Ci rapportiamo con gli adulti, quindi si viene a creare un legame a tre, non diretto con il paziente. E bisogna essere in grado di muoversi nel rispetto di tutte le sensibilità: abbiamo a che fare con chi è apprensivo, con chi invece ha paura della diagnosi e quindi tende a sottovalutare ostinatamente la situazione o magari con chi, al contrario, tende a sopravvalutarla. Dobbiamo valutare anche il suo stato d'animo, insomma, accompagnando tutto il nucleo famigliare nel percorso di guarigione".

In certe situazioni bastano i medici?

"No, serve una squadra. Quando la malattia è lunga o grave, magari con un’importante disabilità, c'è un grosso carico emotivo da considerare. Da parte dei genitori, ma magari anche di eventuali fratelli e sorelle del paziente. Ci sono psicologi dedicati proprio a questi aspetti, perché ci sono dinamiche che spesso sono imprevedibili. A volte drammatiche, dolorose. A volte anche buffe. Ma bisogna essere attenti e pronti a tutto".

C’è qualcosa di diverso, rispetto al passato del Regina Margherita?

“Una criticità da non sottovalutare è quella di una società in cui sono presenti sempre più etnie e provenienze, geografiche e culturali. Spesso si ritrovano una accanto all’altra, nei nostri reparti: tante persone nate in tanti Paesi e magari non tutti hanno stessa confidenza con l'italiano. Una condizione che rappresenta una difficoltà in più per la cura e per la presa in carico dei piccoli pazienti. Ecco perché abbiamo anche mediatori culturali nel nostro staff: quello del confronto con le famiglie è un momento strategico, perché è quello in cui si gettano le basi dell'alleanza terapeutica. Tutti dobbiamo essere alleati per far guarire. E i genitori spesso sono grintosi, una forza. Così come i nostri sanitari".

Ricorda la sua prima volta al Regina Margherita?

“Un trauma. La ricordo perfettamente e mi ha subito fatto capire in che tipo di realtà andavo a trovarmi. Sono andata in oncologia pediatrica e quel giorno, a pochissima distanza di tempo, mentre un bambino non ce la faceva, una nuova diagnosi era arrivata per un bambino in un letto poco distante. Un dolore e una sofferenza che mi ha segnato in maniera indelebile. Ma è anche il momento in cui ho capito che bisognava cambiare quel tipo di ospedale. E per fortuna ho trovato, lungo il mio cammino, chi è stato disponibile a darmi una mano”.

Chi, per esempio?

“Sono state persone che mi hanno aiutato a cambiare il Regina Margherita dall'interno, rispettando i diritti dei bambini a cominciare dalla loro privacy, dalla necessità di una camera singola e della possibilità di avere spazi e momenti per stare in disparte. Persone come la signora Maria Teresa Lavazza, che ho conosciuto mentre portava doni ai bambini dell’ospedale e addobbava gli alberi di Natale come una fata magica. Mi diceva ‘Che brutto, questo ospedale’. E aveva ragione. Abbiamo capito che bisognava cambiare e che pubblico e privato potevano fondersi per aiutarsi. Così sono nati i nuovi reparti: più umanizzati, veramente belli e abitabili, sia per quanto riguarda i pazienti che per i loro famigliari. E con grandi innovazioni tecnologiche”.

Per chi fa un mestiere come il suo, è possibile non portarsi il lavoro a casa?

“E’ impossibile. Ma è anche vero che in un mondo come il nostro, quando non si provano più emozioni e non si sente più il coinvolgimento, forse bisogna cambiare mestiere. Io ho la fortuna di lavorare con una squadra di infermieri, medici e ausiliari, senza dimenticare segreteria e amministrativi, davvero speciali: tutti innamorati di quello che facciamo. Se si smette di provare gioia o dolore, vuol dire che non si riesce più a percepire i messaggi, gioiosi o drammatici, che le famiglie ci mandano tutti i giorni”. 

Che rapporto si crea con famiglie e pazienti, al di là delle cure?

“Ci sono nostri ex pazienti che ancora oggi ci fanno sapere che si sono iscritti all'università, che ci scrivono per dirci che si sono laureati, magari in medicina e hanno scelto la specializzazione in pediatria. Oppure che si sposano. Quelli sono i momenti in cui capisci che hai fatto bene. Ma lo capisci anche quando abbracci i genitori dei bambini che non ce l'hanno fatta: quello è l'ago della bilancia. Perché impari che le persone devi aiutarle e dar loro sicurezze anche nel mezzo di una giungla di difficoltà. Magari consigliando un collega per un secondo parere, perché è umano che la gente possa reagire a una diagnosi terribile chiedendo altrove. E magari trovi medici che, gratuitamente, gli spiegano la situazione, la stessa, ma in un'altra maniera. E poi devi dare la serenità e il supporto delle cure, della riabilitazione, della scuola e del gioco fino agli ultimi giorni. Perché non li abbandoniamo mai, in nessun momento”.

Massimiliano Sciullo

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