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Eventi | 08 febbraio 2024, 13:36

L'epica realista di Paolo Benvegnù stasera all'Hiroshima Mon Amour di Torino: “Diamoci all'irrazionale”

Dopo Umberto Maria Giardini, prosegue la carrellata di volti di punta della musica indipendente italiana. Il cantautore presenterà i brani dell'ultimo album “È inutile parlare d'amore”

Photo credits Mauro Talamonti

Photo credits Mauro Talamonti

Dopo Umberto Maria Giardini, sul palco dell'Hiroshima Mon Amour prosegue la carrellata di volti di punta della musica indipendente e alternativa italiana con il concerto di Paolo Benvegnù, in programma stasera (apertura porte alle 21, inizio alle 22, biglietti a 18 euro). Il cantautore, già cantante e chitarrista della band cult Scisma, torna dunque a Torino per presentare i brani dell'ultimo album È inutile parlare d'amore”, uscito il 12 gennaio per Woorworm-Universal. A poche ore dall'atteso live, abbiamo ripercorso con lui i tratti caratteristici dei suoi testi, della sua musica e del suo immaginario, con un focus particolare sull'ultima fatica discografica.

Dopo il debutto di Firenze, Torino è la seconda tappa del tour di “È inutile parlare d'amore”: com'è andata la prima?

A Firenze è andata insospettabilmente bene: ci sono venute a trovare un sacco di persone che ci vogliono bene e ci siamo sentiti protetti perché non siamo molto abituati ai sold out. Insieme a loro abbiamo portato la scrittura del disco in quel preciso tempo e in quel preciso spazio, senza seguire un canovaccio ma andando per idea e per sensazione.

Arrivate quindi già “caldi” e rodati, cosa ci dobbiamo aspettare dal concerto di stasera?

Un po' di tensione c'è sempre, ma siamo felici perché Torino è fantastica, una città con un fascino davvero mitteleuropeo attraversato da un'intelligenza particolare. Da parte nostra, suoneremo come jazzisti a cui può capitare una serata fantastica oppure no: nella musica c'è la tendenza a cercare la protezione, mentre noi cerchiamo l'altezza; partendo dalle canzoni troveremo il filo rosso che ci permetterà di essere furibondi, proprio perché si tratta di un disco di furore.

A proposito di È inutile parlare d'amore”: nonostante il titolo, di amore ne parli eccome. Che ruolo può avere nella musica e non solo?

Il titolo è una presa di posizione con un significato preciso: in una società che tende all'utile, inteso come denaro e potere, l'amore non serve. Alla luce di questo è ancora più importante praticarlo perché l'amore, con la sua irrazionalità e il suo essere incontrollabile, può dare un senso a tutto. Diamoci all'amore, diamoci all'irrazionale per intercettare il mistero dell'altro ed entrare nella dimensione del noi, in modo da smettere di sopravvivere e iniziare a vivere, per rendere tutto più semplice e confortante.

In generale, si tratta di un album bello “diretto” sia nelle musiche che nei testi: come sono nate le canzoni?

Accorgendoci del rischio di essere giudicanti in un periodo come quello che stiamo vivendo, abbiamo ragionato sull'invettiva chiedendoci come lo avrebbero scritto Shakespeare oppure Omero. Quindi abbiamo sterzato verso l'epica, creando una sorta di Orlando Furioso fatto di inseguimenti verso la relazione con se stessi, con gli altri e con la natura.

Come avete fatto a tradurre questo approccio in un linguaggio accessibile al vostro pubblico?

Attraverso parole semplici ma in grado di evocare significati stratificati e profondi. Una volta trovata la chiave giusta, tutto è venuto con grande facilità, con il sottoscritto a tracciare il disegno e a scegliere la cornice e i suoi compagni a dipingere: è soprattutto grazie a loro se le intuizioni sono arrivate a compimento e durante il lavoro ci siamo concentrati, divertiti e commossi come non succedeva da tempo.

Dai testi, inoltre, si nota una certa preoccupazione, se non addirittura pessimismo, per il presente e d il futuro: a cosa ti riferisci in particolare?

Più che di pessimismo si tratta di realismo, seguendo una soggettiva da sottoproletario che sarebbe tanto piaciuta ad Elio Petri e che non mi fa sentire così diverso da Gian Maria Volontè. Tutto nasce dalla schiavitù creata dal mondo, perché siamo abituati a guardare solo fino al nostro ombelico, infrangendoci in realtà minime e vicine senza comprendere il disegno grandissimo e del tutto casuale – ma non divino - che sta sopra di noi. In un presente dove tutti tendono al supereroismo, non riusciamo nemmeno più ad accorgerci della presenza di esseri umani in grado di accordarsi con la luna; mi riferisco, in particolare, all'universo femminile.

La traccia di chiusura è intitolata “Alla disobbedienza”: potrebbe essere proprio questa la soluzione?

Disobbedire alle regole di schiavitù che ci autoinfliggiamo, muovendoci verso la felicità non in termini di speranza ma di comprensione del mondo e di ricerca di un senso in sé e nelle relazioni. Quando lo facciamo ci stacchiamo dall'io per entrare in un noi in cui tutto diventa più semplice e in cui tutto quello che vediamo come reale e possibile diventa tutti i possibili, realtà che trascinano altre realtà adiacenti.

Tornando all'universo femminile, in “Marlene Dietrich” unisci figure di un certo “peso”: dalla diva di origine tedesca a Tamara de Lempicka, passando per Greta Garbo e molte altre. Come ti è venuto in mente di inserirle in una canzone e come si sono plasmate?

Ho scelto figure femminili estremamente emancipate. Partendo dalla stessa Marlene Dietrich, dalle deviazioni generate dal rapporto con il padre generale prussiano e dalla necessità di fuggire dalla Germania a un certo punto della sua vita, ho pensato a come la disciplina ricevuta in giovane età possa trasformarsi in rampa di lancio per volare più in alto. La vera creazione è quella in “carne e sangue”, tipicamente femminile, che si traduce nella capacità di autodeterminarsi sovvertendo il proprio mondo. Il limite che ho nello scrivere canzoni, a proposito, è simile a quello di Michelangelo quando scaglia il martello contro la statua di Mosè, per l'impossibilità di saper creare in “carne e sangue”.

L'oceano” vede la partecipazione di un altro “pezzo grosso” del cantautorato come Dario Brunori: com'è nata la vostra collaborazione?

Pur essendo molto diversi, ci conosciamo da tanti anni e ci vogliamo molto bene: lui è un eccellente narratore di cronaca immaginifica, una specie di Italo Calvino che riesce ad espandere il quotidiano verso l'universale usando parole comprensibili a tutti mentre io, non avendo questa capacità, mi butto sull'epica. Quando gli ho proposto la possibilità di collaborare, ha ascoltato il pezzo e lo ha sentito subito suo, trovando una chiave e dimostrandosi molto generoso nel gettare una cima alla nostra zattera di naufraghi. Il suo tratto, caratterizzato dal dono della sintesi, è molto efficace e distintivo: è come se io fossi un prussiano e lui venisse dalla Magna Grecia.

A scorrere la tracklist di È inutile parlare d'amore” balza agli occhi "Il nostro amore indifferente", mentre ad aprire l'album precedente era “La nostra vita innocente”. Innocente e ora indifferente come attributi di amore e vita, hai pensato ad un dittico immaginario?

Anche se inconscia, in effetti, tra i due brani c'è una certa continuità. “La vita innocente” era vista come fuga e metamorfosi in contrapposizione alla cecità degli esseri umani nel voler cristallizzare a tutti i costi certi istanti. “L'amore indifferente”, pur condividendo una narrazione simile, sovverte il senso del brano precedente trattando dell'amore e delle relazioni che non differiscono nonostante il tempo che passa e i possibili cambiamenti. Dobbiamo seguire i nostri cambiamenti, che possono essere o meno in armonia con le cose, non per flessibilità ma per stupore.

In conclusione, prendendo spunto da “Canzoni brutte”, non posso non chiederti come ti collochi rispetto al tema discografia e talent show...

Credo sia tutto fisiologico, ma purtroppo dobbiamo farcene una ragione: in un mondo in cui la concentrazione sulle cose dura al massimo 30 secondi e in un paese martoriato dai pregiudizi dove il merito non esiste, a contare sono la potenza del marchio, la mercificazione e la brandizzazione della persona. Personalmente sono contento per i ragazzi che faranno qualche anno al massimo delle proprie possibilità, non tanto artistiche quanto di intrattenimento, ma continuerò a cercare altro, una narrazione infinita fatta da “poeti minori” che dal mio punto di vista sono giganteschi.

Marco Berton

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