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Rubriche | 27 ottobre 2025, 07:00

Quel bicchiere in più

Cosa succede davvero al nostro fegato?

Quel bicchiere in più

Oggi parliamo di un tema che riguarda molti di noi – forse tutti, prima o poi – : l’alcool. Ma non in termini moralistici o giudicanti, bensì con uno sguardo chiaro e onesto su «quando bere diventa troppo» e su cosa succede davvero al fegato quando l’uso dell’alcool non rimane occasionale. Vi invito a fermarvi un attimo, leggere con attenzione, e riflettere su ciò che spesso vediamo come fatto scontato: «Un bicchiere in più non fa nulla». Ebbene, a volte, quel bicchiere “in più” può accumularsi e fare la differenza.

Iniziamo con una panoramica semplice: cosa è un’unità di alcool, quali sono le soglie considerate “a basso rischio” e perché il fegato è l’organo che più ne risente. Partiamo dalle basi: cosa intendiamo quando parliamo di “bere troppo”? Già conoscere cosa significhi “unità alcolica” aiuta a capire meglio i nostri comportamenti. In pratica, un’unità di alcool corrisponde a circa 12 grammi di alcool puro, che si trovano – ad esempio – in un bicchiere di vino (125 ml), oppure in una lattina di birra (330 ml), oppure in uno shot di superalcolico (circa 40 ml) – anche se la soglia percepita può variare.

Ora, per un adulto sano, è indicato un limite “a basso rischio”: fino a circa 25 grammi di alcol al giorno per un uomo, e 15 grammi per una donna. Superare queste soglie, soprattutto se lo si fa abitualmente, non solo occasionalmente, significa aumentare il rischio di danni metabolici, infiammatori e persino tumorali. 

Se invece si va ben oltre – ad esempio, sopra i 60-80 g al giorno per l’uomo, o 20-40 g al giorno per la donna, sostenendo queste quantità per oltre 10 anni –, il rischio concreto diventa la malattia epatica alcolica grave, fino alla cirrosi. 

Ho avuto il piacere di parlare con il dott. Marco Zanetti, nutrizionista con ampia esperienza nel campo della nutrizione, della longevità e dell’alimentazione corretta. Con lui abbiamo esplorato alcune domande che vanno al cuore della questione: come valutare il proprio rapporto con l’alcool, quali segnali tenere d’occhio, e soprattutto cosa concretamente possiamo fare per proteggere il nostro fegato e il nostro corpo da un uso scorretto o prolungato.

Dott. Zanetti, spesso sentiamo dire che «un bicchiere ogni tanto non fa male». Ma quando entrerebbe davvero nella zona “rischiosa” il consumo di alcool?

“Sì, è un’affermazione che sentiamo spesso e che ha un fondo di verità — un bicchiere occasionale, in un contesto sano, probabilmente non creerà problemi seri. Tuttavia, quando parliamo di consumo “rischioso” dobbiamo considerare due fattori chiave: la quantità e la frequenza. Se un bicchiere diventa due, tre, quattro e diventa l’abitudine quotidiana, il fegato comincia a pagare pegno. Oltre circa 25 g al giorno per un uomo e 15 g per una donna, si cominciano a vedere rischi maggiori. L’importante è capire che “occasionalmente” deve rimanere tale.
Se poi queste quantità elevate si prolungano per anni — dieci anni o più — il rischio di malattia epatica alcolica grave sale sensibilmente. L’errore comune è pensare “oggi non faccio male” e ignorare il domani.
In pratica: cerchiamo di non far diventare la modalità “bere” una routine invisibile”.

Quali sono i primi “campanelli d’allarme” che ci dovremmo segnalare come segnali di un fegato che potrebbe essere in difficoltà a causa dell’alcool?


“Spesso non ci sono sintomi evidenti nelle fasi iniziali — la “steatosi” (fegato grasso) può essere silente per mesi o anni. Ma ci sono alcuni segnali che è bene non ignorare: sensazione di gonfiore o pesantezza dopo aver bevuto; affaticamento non giustificato; comparsa di una spiccata “faccia gialla” o occhi un po’ più “rossi” di quanto normalmente; o valori alterati nelle analisi del sangue, come l’aumento degli enzimi epatici (AST, ALT). Naturalmente, questi segnali non sono esclusivi da un consumo di alcool — possono avere altre cause —, ma se c’è un consumo regolare è il momento di riflettere. In conclusione: non aspettare il “grande segnale”, precauzione significa agire anche se solo si percepisce che “qualcosa non va”.

Supponiamo che una persona abbia già un consumo abituale di alcool — magari non “massiccio” ma più di quanto pensasse —: quali pratiche concrete consiglia per “alleggerire” il peso sull’organismo e sul fegato?

“In primo luogo: ridurre. Se già state bevendo più del raccomandabile, lo step decisivo è diminuire regolarmente, non solo ogni tanto. Poi, parallelamente l’idratazione: bere molta acqua è fondamentale perché aiuta il fegato e i reni a smaltire il carico. Poi alimentazione leggera e protettiva: verdure, frutta, proteine magre, evitare fritti, grassi saturi e farmaci inutili che peggiorano il lavoro epatico.
Inoltre, alcuni strumenti utili a supporto: antiossidanti come il glutatione, la N-acetilcisteina (NAC) e la vitamina C possono aiutare il fegato a “riprendersi” dopo un periodo impegnativo, ma attenzione: non sono “pillole salvavita”. Non annullano i danni fatti, aiutano solo l’equilibrio.
Infine: il riposo. Il fegato lavora anche mentre dormiamo, sosteniamolo con un buon sonno, evitare il “bere tardissimo” che porta a svegliarsi già in difficoltà”.

Infine, tra le tante ricerche che evidenziano i danni dell’alcool, ce n’è una che personalmente trova particolarmente importante da far conoscere al grande pubblico?


“Sì: vorrei sottolineare il riconoscimento da parte dell’OMS dell’acetaldeide – che è il metabolita dell’etanolo – come cancerogeno di classe 1 per l’uomo. Questo significa che esiste evidenza certa che essa possa causare cancro nell’uomo. Molti pensano “il vino fa bene” o “una birretta non conta”, e in alcuni contesti moderati e accompagnati da uno stile di vita sano può essere così. Ma non bisogna dimenticare che il danno è dose-dipendente e cumulativo nel tempo. Anche “piccole dosi regolari” sono da valutare, non solo gli “abbuffate”. È un messaggio che vorrei fortemente diffondere: bere non è innocuo solo in termini numerici isolati, ma anche in termini di frequenza, combinazione con alimentazione, stile di vita e fattori personali (età, sesso, presenza di altre malattie). Insomma: siamo più intelligenti se non banalizziamo l’alcool come “sempre innocuo”.

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Virginia Sanchesi

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