Andiamo a letto la mattina presto e ci svegliamo con il mal di testa. Siamo la generazione di sconvolti che iera sera, a Modena, ha risposto al richiamo dell'unico uomo in Italia in grado di radunare attorno a sé 220 mila anime. Più degli abitanti della città stessa, per intenderci. E in una “domenica lunatica” come questa, ricordare quelle intense tre ore e mezza di emozioni significa abbandonarsi al torpore, una volta scesa l'eccitazione del concerto, e liberare incontrollato il pensiero, mentre la tempia pulsa incessantemente nonostante l'ennesimo caffè amaro.
Quello che Vasco Rossi è riuscito a creare al parco Enzo Ferrari è il miracolo più dissacrante della storia recente del rock. Da ogni parte d'Italia, migliaia di fan di tutte le età si sono presi per mano e stretti attorno a un dio che non ha mai chiesto l'adorazione incondizionata. Un'icona della trasgressione che vuole parlare ai suoi sostenitori ponendosi sul loro stesso livello, senza cedere al divismo. Un mito, un mostro sacro della musica nostrana, che si è sempre metaforicamente seduto a bere whiskey al Roxy Bar non da star inarrivabile, ma da Komandante del popolo. Quella combriccola del Blasco che leva alte al cielo le mani, piange e urla, balla e canta come un corpo solo. E tutto questo da quarant'anni.
Vedevo Vasco e i suoi strepitosi musicisti dal lontano del mio Pit 3, eppure riuscivo a sentirmi lì sul palco con loro. Fin dalle prime note, con Colpa d'Alfredo, un inizio sbarazzino e scanzonato che subito ha dato una scossa di brio a quella distesa infinita di pubblico da ore e ore lì in attesa. E, poi, l'omaggio ai ruggenti anni Ottanta da Bollicine a Una splendida giornata, con un caleidoscopio di colori che giocavano d'intermettenza sul ritmo incalzante delle melodie. E che dire delle stupende ballate sopra cui si dovrebbe soltanto fare l'amore, senza troppo indugi: Vivere, Anima fragile, Un senso. Un unico, sinuosissimo moto ondulatorio di braccia e teste, un'esplosione di voci appassionate che cantavano, ciascuno a suo modo, un disperato e struggente inno alla vita.
Per non parlare di quei medley perfetti che hanno unito pezzi graffianti, di pancia, come Gioca con me e Delusa, e le romantiche e malinconiche Una canzone per te, Va bene, va bene così, Ridere di te. Folla in delirio, poi, per l'apoteosi di rullante, piatti, giri di basso e chitarre distorte nel rock travolgente di Gli spari sopra e Sono innocente. Un crescendo di energia, palpitazioni, sudore ed eccitazione, concretizzatosi poi nel lancio libero di reggiseni da sotto il palco con il consueto inno al piacere di Rewind: una canzone in grado di far saltare oltre duecentomila persone, piene in volto di “espressioni di godimento”, come canta Vasco.
Lacrime, abbracci e brividi sotto la pelle, per il gran finale. Vasco invita a sconfiggere la paura con l'amore, continuando a partecipare ai grandi eventi nel nome della musica, della gioia condivisa. Senza darla vinta a chi, seminando terrore, vorrebbe rinchiuderci in casa. E, così, tutti insieme si canta a squarciagola Sally, traportati da quel “brivido che vola via”; ci si unisce al grido di Siamo solo noi, quelli che non han più santi né eroi al mondo; si rincorre ancora e ancora la Vita spericolata, piena di guai, di quelle che non dormi mai. E si attende l'alba chiara, che arriverà a rischiarare un mondo migliore, finché saremo in grado di stringerci, conoscerci, amarci.
Dopo l'ultima esplosione mozzafiato di fuochi d'artificio, la gente defluisce lentamente verso l'uscita del parco. Un ragazzo si avvicina e mi prende per un braccio. “Mi puoi portare a casa questa sera?”, chiede, citando la canzone da cui tutto è cominciato. Io gli sorrido, rispondendogli a tono: “Abito fuori Modena, Modena Park!”. Sì, perché da ieri sera il popolo del Blasco abita ufficialmente nella storia.