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Centro | 10 gennaio 2018, 07:00

Cambia il maestro ma non lo spartito

Ricominciamo. Chi era già che cantava questa canzone? Boh. Sicuramente l’emulo odierno è Urbano Cairo.

Cambia il maestro ma non lo spartito

Ricominciamo.

Chi era già che cantava questa canzone? Boh. Sicuramente l’emulo odierno è Urbano Cairo.

Dopo i primi anni di presidenza, in cui gli allenatori volteggiavano come libellule nel caldo cielo estivo, Urbano aveva capito due cose. La prima, che tutti questi cambiamenti servivano solo a creare ulteriore confusione ad un ambiente che invece aveva bisogno di stabilità e chiarezza. La seconda, che ognuno di questi soggetti ingaggiati e poi esonerati in un rapido battito di ciglia, andava poi comunque pagato per tutta la durata del contratto stipulato. Non tanto la prima, quanto la seconda considerazione, probabilmente lo avevano fatto riflettere e rinsavire. Fin troppo, visto che poi ci è toccato subire un quinquennio di mediocrità, condita da proclami vacui ma roboanti, in cui il maledetto aggettivo “importante” permeava ogni cosa, avvolgeva ogni situazione, e veniva servito in ogni salsa, visto che significava tutto e nulla allo stesso tempo. Avremmo disputato un campionato “importante”, il professionista appena ingaggiato era un giocatore “importante” e anche a seguito di una sconfitta ingloriosa, si poteva dire di aver disputato una gara “importante”al cospetto di una avversaria “importante”. Cinque anni di sta solfa, somministrata con ampollosa spocchia da colui che, al culmine della sua carriera, è entrato indelebilmente nella storia del calcio nazionale con la “importante” esclusione degli azzurri dai mondiali di calcio, cosa che non accadeva da ben sessant’anni. In questi cinque anni ci siamo scaldati al timido sole di un derby vinto contro la Juve B, che la A era in panchina a riposarsi in vista della semifinale di Champions di due giorni dopo, e della vittoria di Bilbao, per riprenderci dalle docce gelate di titic e titoc che avrebbero fatto spazientire Giobbe, di sconfitte disonorevoli, accettate col sorriso, se non quando con l’allegria e la superficialità dello storico derby di coppa Italia, di sequenze interminabili di pareggi e punti buttati al vento o peggio di sconfitte di misura difese coi denti fino alla fine. Insomma, tutto ciò è andato bene, solo perché a fine anno, ogni anno, la scialba prestazione sportiva veniva riscattata da una brillante sessione di mercato estivo. In uscita, ovviamente, perché ogni maledetto anno uno o più giocatori, sempre i migliori ovviamente, partivano per altri lidi, preceduti dalla frase di rito “siete pronti per una grande squadra” e seguiti dall’altro mantra rituale “è il giocatore che è voluto andare, non potevo tarpargli le ali”. Ecco servita la “plusvalenza”, la moderna dea che tutto salva e risolve ed assolve i peccati di tutta la stagione. Cinque anni di questo strazio.

Poi è arrivato Sinisa.

Carattere irruente, un vissuto difficile alle spalle, con l’esperienza della tragedia della guerra in ex Jugoslavia e l’amicizia col Comandante Arkan a dare ulteriori tinte forti ad un personaggio già marcato di suo. Uno che non la manda a dire, che si assume i suoi rischi e a volte anche quelli degli altri.

Sicuramente non il re degli strateghi, certamente non il principe del “Savoir Faire”, senza dubbio non un Richelieu. Insomma, uno da sciabola d’arrembaggio, più che da fioretto. Uno da Toro.

Troppo da Toro.

E il nostro presidentissimo, che non si lascia rubare la scena da nessuno, probabilmente si sentiva in ombra al cospetto di questo personaggio che catalizzava le simpatie del popolo granata ben più di lui. Che fare, allora? Un bel sorpasso a destra, di quelli azzardati. A fronte dell’azzardata assunzione di responsabilità del mister, che aveva dichiarato “il nostro obiettivo è l’Europa, se non lo centriamo sarà colpa mia” (mamma mia che differenza con le vacuità del suo predecessore), al Pres non restava che rilanciare.

“Questo Torino è la squadra più forte degli ultimi anni”. Dichiarazione che poi cresceva a dismisura, con gli anni che diventavano sempre di più, fino a far pensare che dal 1906 non ci fosse stata formazione migliore. Peccato che, causa la legge di gravità, quando si butta una merda per aria, prima o poi ti ritorna in faccia.
Puntuale e precisa, è arrivata.

Una stagione iniziata a razzo, complice anche un calendario facile facile, ci piroettava in alto e ci dava l’illusione di essere pronti a competere per l’europa alla pari con le altre squadre. Ma poi, pian piano, il calendario che ci aveva favoriti alla partenza, ci proponeva anche tutte le altre tappe della via crucis ed i misteri, tutti dolorosi, venivano a galla uno alla volta. Tra giocatori sopravvalutati, altri svogliati o demotivati, altri proprio scasi da far paura, la corazzata si dimostrava essere fragile barchetta in balia delle procelle.

Nel mondo del calcio, si sa, non si può esonerare una intera squadra, men che meno si è mai visto un presidente che si auto esonera e quindi è il mister il capro espiatorio. Pace, ce ne facciamo una ragione. Io sono tifoso del Toro, non di MIhajlovic, anche se mi stava, anzi, continua ad essermi, molto simpatico proprio per questa sua irruenza sincera, questo spirito arrembante con cui affronta il calcio e probabilmente la vita, e quindi grazie di quel che ha dato e avanti il prossimo, ovvero Mazzarri.

Ma caro Cairo, se non apri i cordoni della borsa e non investi in giocatori di livello, non solo di nome, puoi pure ingaggiare Mourinho o Guardiola, che la solfa non cambierà mai.

La mediocrità sportiva che ha contraddistinto questi ultimi sofferti dodici anni, non è destinata a cambiare e l’unico ad essere felice della status quo, sarà il nostro presidente contabile (ho scritto contabile, non cuntabale) che a fronte della vista dei conti in attivo chiuderà gli occhi sul passivo sportivo e storico di una società che merita, per il suo blasone, per il suo passato e per la sua gente follemente innamorata, ben altri scenari.

Domenico Beccaria

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