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Cultura e spettacoli | 15 novembre 2020, 10:13

Il Piemonte nei romanzi di Remo Bassini

Dopo il noir “La donna di picche”, un romanzo sul giornalismo – Le ambientazioni tra Vercelli, Torino, la Valsesia e Orta

Il Piemonte nei romanzi di Remo Bassini

Remo Bassini può sicuramente annoverarsi tra i maggiori scrittori piemontesi del nostro tempo, in virtù di una scrittura narrativa che, almeno per quanto riguarda i contenuti - sulla forma si avvertono invece chiare le radici linguistiche della natia toscana – guarda alla società locale, filtrata talvolta attraverso le regole del genere noir, talaltra quasi ricordando i personali trascorsi alla direzione de La Sesia, testata storica di Vercelli, dove cronaca nera e cronaca rosa assumo spesso i connotati del provincialismo riottoso.

Remo, i tuoi due libri pubblicati con l’editore  Fanucci - ovvero La Notte del Santo e La donna di picche – risultano di ambientazione padana, con figure che si muovono tra Torino, Vercelli e la Valsesia. Perché questa scelta per così dire geografica?

Sono nato in Toscana, ma vivo in Piemonte da quando avevo due anni. Gli anni della fabbrica, l'università a Torino, la conoscenza e la frequentazione, da una dozzina d'anni, della Valsesia. Quando mi mettevo a scrivere vedevo questi luoghi. La donna di picche è addirittura ambientata vicino a casa mia, nel centro di Vercelli. Mi piace camminare e pensare quando c'è nebbia. La nebbia fa parte dei miei libri e, a mio avviso, è il simbolo della vita: c'è sempre nebbia, a volte tanta a volte poca, che avvolge le nostre esistenze.

È raro che uno stesso libro, in Italia, arrivi alle finali  in due premi importanti; però questo è accaduto a te, l’estate scorso appunto con La donna di picche, che sia La provincia in Giallo sia Nebbia Gialla hanno condotto in semifinale. Ti sei senti appagato? Come hai reagito a questo doppio risultato?

Non mi era mai successo e mi ha fatto piacere. Ma è durato un giorno. Non mi sono sentito appagato, non lo sarò mai. La bellezza della scrittura non sta nel ricevere consensi. A volte ci sono a volte no. La bellezza della scrittura sta nello scrivere. Una recensione, un premio, una pubblicazione son cose che passano in fretta. Che si dimenticano. È più importante quello che ti resta dentro. Il ricordo di una pagina scritta cento volte, un personaggio creato dal nulla.

In un momento in cui i mass-media danno rilievo quasi solo ai libri usciti da colossi editoriali, il fatto che proprio la stessa Donna di picche, nel 2019, venga recensita non solo da molti blog, ma da un giornale molto letto come il Fatto quotidiano o che Radio Uno Rai ne abbia parlato due volte con due interviste (l'ultima in una puntata de L'inviato speciale), ti può gratificare?

Mi ha fatto piacere, ma per un motivo ben preciso: io non sono capace a promuovermi. Spedisco o faccio spedire un libro a un giornale, sperando che qualcuno se lo fili, ma non alzo mai il telefono per sollecitare. Stessa cosa per i manoscritti, le presentazioni.

Una domanda su giornalisti e critici ma anche sui tuoi lettori. Secondo te hanno colto bene questo attaccamento al territorio, che non è solo emotivo, ma che ti sprona anche alla denuncia indiretta di certi storture (per non dir peggio)?

Non lo so, ma è sempre interessante leggere che impressione ha fatto su altri quello che hai scritto. (Ripeto e ricordo ora un aneddoto che raccontava Pontiggia. Quando domandarono a Marquez che messaggio conteneva Cent'anni di solitudine lui rispose: E cosa ne so?). Per me un libro è un incontro tra chi lo ha scritto e chi lo legge.

Dopo La donna di picche e la ristampa di due tuoi libri (Il bar delle voci rubate e La donna che parlava con i morti), nel 2020, per la casa editrice Golem di Torino, uscirà un altro tuo romanzo ambientato in una redazione di giornale: Forse non morirò di giovedì. Puoi parlarcene? Ancora Piemonte?

Di Piemontese questo libro avrà l'editore Golem e il giornalista Giorgio Levi, che mi ha scritto una bella postfazione. È la seconda post fazione che compare su un mio romanzo. La prima me la scrisse Travaglio per il giallo politico Lo scommettitore, nel 2006. Forse non morirò di giovedì è un romanzo ambientato in una piccola redazione di un giornale di una provincia de nord, ma imprecisata. Avrei potuto intitolarlo “giornalisti contro”. Da un lato i giornalisti-servi, dall'altro i giornalisti liberi. E il libro è dedicato a loro e a due giornalisti scomparsi che per me hanno significato tanto: Ciro Paglia e Francesco Brizzolara.

Il romanzo che hai appena finito, dal titolo provvisorio La suora, sarà ancora una volta piemontese: viene infatti ambientato tra Orta, Vercelli (durante il lockdown ma anche durante il secondo conflitto mondiale) e La Valsesia. Perché insistere in questa scelta? E com’è rispetto agli altri due rispetto a personaggi, ambienti, situazioni?

È una storia forte e particolare, che racconta di due amori folli. Uno ai tempi del lockdown, tra Orta e la Valsesia, ed uno nel 1945. L'ambientazione doveva essere piemontese, perché ho tratto spunto da una storia di un amore, vero e contrastato, vissuto tra le risaie mentre la seconda guerra mondiale stava per terminare. Ci sono le strade deserte di allora, e le strade deserte del lockdown. E il mio protagonista sogna la sua Valsesia, la sua baita, tra alberi e fiume Sesia. Dice che lì il lockdown e il covid non fanno male.

Guido Michelone

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