Si è concluso ieri il progetto "Mao meets Urban Art" curato da Roberto Cortese, che ha coinvolto quattro writers torinesi nell'elaborazione di disegni su tela ispirati alle antiche collezioni del Museo d'Arte Orientale di via San Domenico 11. Un tocco di contemporaneità artistica tra le mura della sala polivalente, che esporrà i lavori fino al 31 gennaio 2021 (confidando nella riapertura dei luoghi culturali allo scadere dell'ultimo Dpcm).
Anche in questo periodo di chiusura, l'attività degli artisti è andata avanti a porte chiuse, offrendo al pubblico la possibilità di vederne gli sviluppi da remoto tramite i social e il sito del museo.
Abbiamo incontrato a tu per tu Gianfranco Abramo, in arte ENCS 18, che ha scelto di rappresentare il celebre dio dalla testa di elefante venerato dagli induisti.
ENCS 18, a cosa ti sei ispirato per la tua opera al Mao?
Ho interpretato Ganesha in modo del tutto personale, anche se, nell’iconografia induista, è una divinità che non può essere stravolta troppo. Ha forme bidimensionali, non anatomiche. Mi attirava per la sua qualità e capacità di rimuovere gli ostacoli, oltrepassare il limite. È in grado di infondere equilibrio e forza per affrontare le difficoltà che tutti noi incontriamo con rinnovata fiducia, dona lucidità e calma. Per nostra cultura, siamo spesso molto impulsivi, reagiamo in modo irrazionale, mentre la costanza e la lentezza ci porterebbero a superare le difficoltà più agevolmente. Per questo ho messo una sorta di porta, nella raffigurazione, un cerchio, forma che uso spesso. È come se Ganesha, camminando lungo una strada, arrivasse a questo passaggio e lo superasse. Il tutto giocato su uno sfondo di tre differenti viola, che richiamano un paesaggio cromatico tipicamente indiano.
Ti ci ritrovi, in questa filosofia?
Sì, molto. In passato non avevo questa stessa concezione, ma bastano solo un po’ di costanza, lucidità e concentrazione per ottenere quel che si vuole, che può essere smettere di fumare da un giorno all’altro o un obiettivo più grosso in pochi mesi. Mi rendo conto, parlando con tante persone, che la gente tende a lamentarsi di tutto ciò che la blocca, che sia un rapporto d’amore, un problema di lavoro o qualcosa a livello personale. La spiritualità induista, invece, sarebbe un buon motore anche per l’occidente per vedere la vita in modo più positivo, senza trascinarsi dietro il problema come una zavorra. Ecco perché ho voluto comunicare l’idea del superamento del limite, perché tanti ne sono afflitti e non ne parlano.
Come valuti l’immissione dell’arte urbana all’interno di uno spazio museale?
Sicuramente in modo molto positivo. Le persone ora riconoscono che la street art e il writing sono forme d’arte a tutti gli effetti, non solo graffiti e scritte sui muri. Quasi tutti gli artisti vogliono comunicare dei messaggi con i propri disegni. Se davanti a un muro una persona si emozione, significa che hai fatto centro. Entrare in un museo è quindi l’affermazione del nostro valore e del nostro ruolo. Ma, allo stesso tempo, non significa distaccarsi dalle nostre origini. C’è una componente di illegalità, nel writing, che ne determina la sua stessa essenza. Questa dinamica poi scende per forza a compromessi con la società in cui siamo inseriti, ma, di base, resta una forma espressiva che non deve chiedere il permesso a nessuno per manifestarsi. Tanti, infatti, scelgono di rimanere tutta la vita nella soglia del “non lecito”.
E tu come hai iniziato?
Sono del ’79, il mio primo approccio alla street art l’ho avuto nel ’94. Andavo a scuola e un mio compagno di classe, che faceva rap, mi ha fatto conoscere la cultura hip hop, la break, i graffiti. Si metteva a fare freestyle tra i banchi, io ero scioccato, gli ho detto: ma figurati se quello che dici te lo inventi sul momento, tu le rime te le scrivi prima. Lui mi ha risposto di tutto punto con un freestyle perfetto su di me. Da lì ho iniziato a crearmi un soprannome e sviluppare le prime lettere sui muri, racimolando pennarelli in giro. Sono nato e cresciuto a San Salvario, e, in quel quartiere, si è formata una crew di cui ho fatto parte per molto tempo. Era divertente, sì, ma anche un impegno serio, portato avanti con dedizione. Poi ci siamo persi, ho iniziato a lavorare e smesso di andare a scuola, ho attraversato un periodo un po’ burrascoso. Tuttavia ho continuato per conto mio, fino al 2000, quando mi sono fermato per un anno, non mi andava più. Dopo ho sentito un nuovo stimolo a ricominciare, e da lì in poi non mi sono più fermato. Nel 2007 mi sono unito all’associazione Monkey’s Evolution per il progetto Murarte della Città di Torino, e ho conosciuto tantissima gente con la mia stessa passione. I graffiti sono stati per me sempre una bella fonte di sfogo, davvero essenziale. Dal 2010 ho intrapreso un percorso molto intenso, mi sono proposto agli eventi in tutta Italia, ho chiesto di partecipare alle jam. La mia è stata una formazione prettamente da autodidatta, ma ne è nata una gavetta molto piacevole. Non si tratta soltanto di mettersi davanti a un muro e disegnare, ma girare per le città e conoscere posti e artisti sempre nuovi regala una cultura enorme. Condividi tutto.
Adesso quali sono i tuoi progetti?
Sicuramente vorrei tornare a viaggiare il prima possibile. Negli ultimi cinque anni ho girato molto in Italia, mentre l’anno scorso ho partecipato per una settimana al Meeting of Styles in Polonia e, sempre nel 2019, sono partito per il viaggio della vita, in Giappone. Un’esperienza incredibile con altri due amici e colleghi writers. Abbiamo fatto due muri a Tokyo e Hiroshima, oltre a visitare tantissimi musei e conoscere da vicino l’arte e la cultura locale. Sembra di stare in un pianeta futuristico, per tutto ciò che i giapponesi fanno, per come vivono. Hanno una soluzione efficace a ogni problema, è un popolo molto gentile e onesto. Lì la mia passione per l’Oriente si è decisamente acuita, per questo ho accettato subito volentieri la proposta del Mao. Con il Covid, quest’anno, ho lavorato di meno, come tutti. Sono riuscito a partecipare in estate a tre eventi in provincia di Milano, a Modena e in Liguria. Vorrei dedicare più tempo alle mie tele, far evolvere i personaggi che ho già iniziato, personalizzare il mio stile e cercare di comunicare su muro messaggi chiari, impattanti. Ho in progetto, ancora in standby, di stampare magliette o altri gadget con la mia firma. Poi si vedrà. Restare così tanto a casa per me era un’utopia, fino a qualche mese fa. Il lockdown è stato un periodo davvero assurdo. Se non vedo gente, gli stimoli creativi mancano.