In ambito letterario sono molte le personalità illustri che, trovandosi a passare per Torino, ne sono rimaste particolarmente colpite. Da Stendhal a Twain, da Dumas a Nietzsche, senza dimenticare i vari Goldoni, Gogol, Dostoevskij, sono stati in molti a rimanere affascinati dal capoluogo pedemontano, dall'eleganza delle sue vie e dei suoi palazzi, dalla ricchezza della sua cultura e tradizione, persino dal decoro dei suoi abitanti e, dulcis in fundo, dalla sua gastronomia.
Lo statunitense Herman Melville, autore del celeberrimo e celebratissimo Moby Dick, edito nel 1851 e tornato in auge negli anni '20 del '900 dopo un lunghissimo periodo d'oblio, visitò la città nell'aprile del 1857, soggiornandovi per qualche giorno. Personalità letteraria di inopinabile spessore, autore di un romanzo considerato oggi un caposaldo non solo dell'American Renaissance, ma della letteratura contemporanea in generale, Melville era nato a New York nel 1819 (città dove sarebbe morto settantadue anni dopo, nel settembre del 1891).
L'11 ottobre del 1856 si imbarcò per il suo secondo viaggio nel Vecchio Continente, sbarcando a Glasgow e soggiornando per qualche tempo in Inghilterra. Qui incontrò l'amico e allora console americano Hawthorne, con cui partì alla volta della Palestina. Rientrando decise che fosse irrinunciabile una tappa nel Bel paese, e così, dopo essere sbarcato a Messina il 13 febbraio del 1857, risalì lo stivale toccandone le principali città d'arte. Soggiornò una settimana a Napoli, un mese a Roma, quindi qualche giorno a Firenze, visitando infine Genova, Torino e Venezia tra marzo ed aprile. Melville dedicò in verità poche righe a Torino, ma dalla sua piccola testimonianza si evince tutto il fascino che la città dovette esercitare su di lui. Rimase piuttosto colpito, sulle prime, dalla mescolanza di stili architettonici della parte antica del capoluogo (“Piazza Castello, dov’è l’albergo, è nel centro di Torino. Un complesso antico e interessante con vari fronti e una grottesca mescolanza di varie architetture”), e trovò singolare e assai suggestivo il colpo d'occhio che si otteneva da Piazza Castello, “osservando all’in giù la vista di via di Grossa fino al Monte Rosa e alle sue nevi”.
Trovò la città schematica e ben disegnata, arrivando a definirla, in un confronto forse un briciolo azzardato, “più regolare di Filadelfia”. “Gli edifici -scrisse l'autore statunitense- sono tutti dello stesso taglio, colore e altezza. La città sembra per lo più costruita da un solo imprenditore e pagata da un solo capitalista”.
Descrisse i caffè come belli ed eleganti, aristocratiche le vie, eccellente il cioccolato, che gustò con golosità soprattutto a colazione; notò il decoro del lavoratore medio torinese, non potendo fare a meno di confrontarlo con i modi meno “aristocratici” dei propri connazionali della stessa levatura sociale (“lavoratori e donne di modesta condizione che prendono la loro frugale colazione nei bei caffè; sono stupito dal loro decoro, così differente dalla classe corrispondente di casa nostra”). Descrisse infine i torinesi in genere come sobri e riservati, molto diversi dai suoi compatrioti degli Stati Uniti.
Il 15 aprile del 1857, dopo aver toccato in un paio di mesi tutte le principali città italiane, Melville lasciò l'Italia diretto in Svizzera, consegnando alla storia questa breve ma affettuosa descrizione della nostra città.