Sarebbe dovuto ripartire per il Libano dove aiuta i profughi siriani sabato 27 aprile, ma il rischio è tale che gli è stato imposto di posticipare il rientro. Per ora Luciano Griso, settantaseienne medico pinerolese in pensione, responsabile del progetto Mediterranean Hope - che dal 2015 offre corridoi umanitari in uscita dal ‘Paese dei cedri’ - ha posticipato il viaggio di una settimana ma la tensione tra Hezbollah ed Israele è tale che non ha tempistiche precise per il ritorno. “Pause di questo tipo sono state necessarie a novembre dello scorso anno, all’inizio delle ostilità tra Israele e Hamas e, precedentemente, a causa della pandemia” racconta. A Pinerolo dal 25 marzo, Griso guarda quindi con attenzione all’evolversi della situazione internazionale.
Con l’équipe di Mediterranean Hope, e durante i suoi servizi di assistenza sanitaria ai rifugiati siriani ed alla popolazione povera libanese, Griso non lavora sul fronte più caldo delle ostilità: “Non siamo al sud, ma operiamo a Beirut, e nella valle della Bekaa, al confine con la Siria. Tuttavia bisogna considerare che il Paese è piccolo: ha circa le stesse dimensioni dell’Abruzzo”. La sensazione di trovarsi sull’orlo del baratro è quindi percettibile anche tra i libanesi che frequenta: “Temono un allargamento del conflitto con Israele e non vogliono rimanerne coinvolti: molti di loro ricordano ancora le invasioni israeliane del 1982 e del 2006” rivela. Tuttavia, benché la maggior parte della popolazione non sia d’accordo con l’organizzazione paramilitare che opera nel sud Paese ed anzi, la temano, non manca una base di sostegno: “Circa il trenta per cento dei libanesi è sciita e simpatizza dunque con Hezbollah”. La paura della guerra aggrava un senso di insicurezza legato alla crisi politica ed economica: “Da un anno e mezzo manca il presidente della Repubblica e quello del consiglio ha un incarico solo ad interim, inoltre nel 2019 il Paese è stato dichiarato fallito dal Fondo monetario internazionale. L’economia non ha una base industriale ma è sorretta dalle rimesse dei libanesi che vivono all’estero e sulle donazioni dei Paesi arabi. In questa situazione di fragilità circa la metà dei libanesi vive sotto alla soglia di povertà”.
La percentuale sale però drasticamente quando si considera la vita dei profughi siriani in Libano: “In questo caso circa il 90 per cento vive al di sotto di quella soglia. Dal 2011, quando è iniziata la guerra in Siria, molti di loro abitano ancora sotto le tende dei campi profughi” sottolinea. Griso gli fornisce l’assistenza medica di cui non avrebbero diversamente diritto: “Il Paese non ha mai firmato al Convezione di Ginevra e quindi non riconosce lo status di rifugiato, in questo modo vengono esclusi dall’assistenza sanitaria”. La stima è che siano 1,5 milioni i profughi siriani ma il reale numero non si può conoscere: “Dal 2015 il governo ha imposto all’alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati di non registrarli. In questo modo non gli viene assegnato nessun riconoscimento legale”.
Mentre i cittadini libanesi vivono nella paura di una nuova guerra con Israele, tra i profughi siriani si è già diffusa la disperazione: “Hanno voglia di andare via il prima possibile. Ad esempio so di un paziente che è scappato dall’ospedale di Beirut e di un nostro collaboratore siriano di cui abbiamo preso le tracce. Molti tentano la via del mare, puntando verso Cipro”. Ciò che sta scatenando il panico non sembra tanto la situazione al sud del Paese, quanto piuttosto le aggressioni per mano dei libanesi che si stanno verificando: “Da circa un mese è iniziata una vera e propria campagna contro i profughi alimentata dalle organizzazioni di estrema destra e innescata dal ritrovamento in Siria del cadavere di un generale delle forze armate libanesi”. L’assassinio ha scatenato tensioni già latenti: “I profughi erano già stati accusati ingiustamente della crisi economica, ora ci sono veri e propri pogrom a Beirut e i siriani vengono spinti a tornare nel loro Paese”.