È durante una visita a Orsolina28, immersi nella quiete delle colline del Monferrato, che ci imbattiamo in Akram Khan. Sorridente, concentrato, sta guidando una sessione di lavoro con la sua compagnia nel campus che unisce architettura contemporanea e paesaggio rurale in un abbraccio silenzioso.
Ci parla a bassa voce, con quella calma tipica di chi ha trasformato la danza in una forma di pensiero. “Non è solo un lavoro sul corpo, ma sull’umanità. Siamo qui per raccontare qualcosa che riguarda tutti”, ci dice, accennando a "Turning of Bones", il suo spettacolo che andrà in scena sabato 14 giugno 2025.
Con Turning of Bones, Akram Khan compie un gesto tanto intimo quanto politico: ritorna a sé stesso, attraversando il corpo come si attraversa un tempo perduto, con il rispetto di chi danza tenendo sulle spalle la memoria dei propri morti. Il titolo dell’opera allude al Famadihana, il rituale malgascio in cui i resti degli antenati vengono riportati alla luce, sollevati sopra la testa, fasciati di nuovi sudari, e danzati per riconnettersi con la propria eredità. È un atto di amore, di cura, ma anche di consapevolezza: non si può andare avanti se non si guarda indietro.
In questo nuovo lavoro — il primo creato per Gauthier Dance//Dance Company Theaterhaus Stuttgart — Khan non compone semplicemente una coreografia: dissotterra il proprio passato artistico, ne riscrive i nomi e li offre al presente come un dono da cui ripartire.
Un museo vivente
Khan racconta: “Una volta che un lavoro è stato fatto, è nel passato. Ma il mio corpo, che è il museo della vita, è sempre nel presente”. Come nel Famadihana, anche qui l’opera è un corpo, un oggetto da riportare alla luce, ma ciò che lo anima è la carne viva del presente.
“Turning of Bones” è quindi una sorta di autorequiem dinamico: una selezione rivisitata di scene tratte da “Jungle Book reimagined”, “iTMOi (In the Mind of Igor)”, il solo di “DESH” e il pas de deux “Mud of Sorrow”, in cui il malcontento e la ricerca di significato diventano il filo conduttore. Tutto sfocia in un nuovo segmento, inedito, che mette al centro la danza come linguaggio primario, come pulsazione emotiva, come verità fisica.
La danza come tempo sacro
Il tempo, per Khan, non è una linea, ma una sospensione. La danza non è semplicemente uno spettacolo, ma un rituale collettivo di ascolto e presenza. Nell’epoca dei telefoni sul tavolo, degli iPad accesi durante la cena, l’artista osserva: “Pensavo che l’ultimo rituale umano fosse il mangiare insieme, ma ho capito che è il raccontare storie insieme. Andare a vedere una performance è una scelta radicale di attenzione, un dono di tempo”.
E proprio il tempo — scardinato, spirituale, femminile, naturale — è il protagonista invisibile di questo lavoro. “Viviamo in un tempo artificiale, quello degli uomini che hanno deciso cosa fosse un secondo dalla cima della Torre Eiffel. Ma io credo nel tempo che si sente nella pelle, nella sabbia, nei boschi”.
Orsolina 28 e il tempo della semina
L’artista ha avuto modo di riflettere a fondo su questi temi anche in Italia, durante i suoi soggiorni a Orsolina 28, il centro di danza immerso nella natura del Monferrato. Lì, tra le colline e le vigne, il tempo non è un orologio, ma un respiro. “Mi piacerebbe tornare all’arte e al mio lavoro precedente”, ha detto, “ma ogni volta che lo rivedo, lo vedo con occhi diversi, perché io sono cambiato. È questo che rende la danza sempre viva: non cambia l’opera, ma il corpo che la vive”.
Il corpo come atto politico
In un momento storico di smarrimento globale, in cui la danza contemporanea viene spesso percepita come astratta, elitaria, difficile, Khan propone un’alternativa semplice e radicale: il corpo come linguaggio universale. “Non è un linguaggio che diventa universale. Lo è già. Perché tutti nel mondo danzano, rispondono alla musica, si muovono in ritmo. Il problema è che abbiamo separato mente e corpo. Non collaborano più. Non c’è più connessione tra ciò che pensiamo e ciò che viviamo”.
E il corpo, per Khan, è sempre politico. Non tanto per ciò che dice, ma per ciò che è. La scelta dei danzatori, la costruzione del gesto, la relazione tra i corpi e lo spazio: tutto è portatore di un messaggio. “Non voglio raccontare una storia politica, ma condividere la politica del corpo, con il corpo”.
Infine, come padre, Akram Khan non chiede ai suoi figli di diventare artisti, ma di innamorarsi di qualcosa. Perché solo l’amore — per un’arte, una disciplina, una passione — può dare un senso al nostro stare nel mondo.
“Turning of Bones” è questo: una dichiarazione d’amore alla danza, non come tecnica, ma come spazio di ascolto, come rito collettivo in cui il tempo si dilata, la memoria si fa corpo, e ogni gesto ci ricorda che siamo vivi.
Il cuore verde della danza contemporanea
Orsolina28 non è solo una location: è un ecosistema dedicato alla creazione artistica, all’educazione e al dialogo tra corpo e natura. Da anni accoglie compagnie da tutto il mondo e lavora a stretto contatto con artisti del calibro di Akram Khan, offrendo residenze, corsi e performance aperte al pubblico in uno scenario unico.
Akram lo conosce bene: qui ha già lavorato in passato, trovando tra questi colli “uno spazio ideale per immaginare e costruire, lontano dal rumore del mondo”. È anche per questo che ha scelto di presentare qui la sua nuova creazione, in un’atmosfera raccolta e partecipativa.