L'arcivescovo Cesare Nosiglia ha tenuto una lunga e appassionata omelia in Duomo, durante la messa durante la messa in Duomo per gli operatori e i volontari delle diocesi di Torino e Susa. “Più poveri, ma più solidali”. È stato lo slogan che ci ha accompagnato in questi lunghi mesi di sofferenza e di incertezza. Non era una speranza, ma un messaggio realistico: il contagio ci ha obbligato, tutti, a riconoscerci sulla stessa barca; più deboli ma più uniti.
Un clima, quello della solidarietà, dell’attenzione agli altri, che si è forse un poco incrinato nelle ultime settimane, quando avevamo coltivato l’illusione di essere fuori dal problema e di poter guardare alle feste natalizie e di fine anno con spensieratezza. Invece, i giorni di Natale si presentano ancora, malgrado tutto, carichi di preoccupazione. Ma è un disagio, a mio avviso, che contiene elementi positivi. Eravamo abituati a fare di Natale una festa consumistica e spendacciona, tanto da far dire a qualcuno che si celebrava un Natale più paganeggiante che cristiano. L’austerità di spostamenti e celebrazioni potrà invece aiutarci a recuperare un senso della festa più autentico: la gioia del Natale non è soltanto spendere e brindare! La felicità profonda che torna ogni anno nei nostri cuori viene dalla nascita di un Bambino che ci è stato dato come salvatore.
Gesù non viene a salvare solo i cristiani, nevvero? Ciò che chiamiamo “salvezza” significa, prima di tutto, trovare un senso alla propria vita e alla storia del mondo: «Ecco vi annuncio una grande gioia che sarà di tutti, a Betlemme vi è nato un salvatore che è Cristo Signore». Eravamo stati abituati a pensare di essere autosufficienti, avendo a disposizione quei beni materiali e culturali che garantivano alla maggioranza di noi una vita gioiosa e bella. Eravamo abituati a credere di poter tenere lontane per sempre la malattia e la miseria dalle nostre vite.
Invece, la lezione del Bambino che nasce a Betlemme va nella direzione opposta: è nella fraternità, nel condividere i doni, così come i bisogni, che si trova la via della gioia. E come potrebbe essere diversamente? Quale pienezza di gioia ci potrebbe essere, se qualcun altro vicino a me è infelice? Quale pace è mai quella che nasconde la guerra lontano da casa mia? La grande, ripetuta lezione di papa Francesco è di una semplicità impressionante: in un mondo globale tutto è globale – e tutti condividiamo tutto, in realtà.
Ecco la necessità della fraternità, che è più una constatazione della realtà, che un’istanza o un dovere morale. E fraternità sono le cose che viviamo ciascuno di noi qui e ora, le scelte concrete che facciamo. Tutto questo ci aiuta a ritrovare nel Natale il suo vero senso e ci sprona a renderlo una occasione di solidarietà verso tante persone che soffrono o sono in condizione che mai avrebbero pensato di vivere. Famiglie e persone, che erano tra coloro che aiutavano i più poveri, ora si trovano a dover essere aiutati persino nel cibo quotidiano.
Il rischio che tuttavia possiamo inconsciamente correre sta nel vivere la solidarietà solo come beneficienza o assistenzialismo, quasi che questo pure necessario impegno possa esaurire il senso del Natale. Papa Leone XIII parla del Natale come di una festa in cui nessuno può sentirsi triste perché a Natale nasce la gioia per ogni uomo e soprattutto per i più poveri come ci ricordano gli angeli che hanno detto ai pastori: ecco vi annuncio una grande gioia. Ma la gioia non sta solo nel dare da mangiare a chi ha fame o dargli anche un sussidio che lo faccia sentire come gli altri, ma sta in Gesù, nell‘accogliere dunque e riconoscere che Lui è la gioia e la pace, l’amore e la vita per tutti.. Per questo ci troviamo oggi difronte a un Natale molto più impegnativo perché dare delle cose pure necessarie è certamente più facile che dare se stessi il proprio cuore,la propria amicizia, attivare un accompagnamento che ci aiuti a chiamare per nome le persone, a guardarle negli occhi e a donargli un abbraccio magari non fisico ma morale e spirituale. Segni di affetto che sembrano dire al povero, al malato e sofferente, al migrante, alla famiglia senza più lavoro. Tu conti molto per me e io mi sento in obbligo di ricambiarti per quanto il Signore mi ha donato con la tua persona.
La gente necessita di amore disinteressato e sincero, di condivisione ed ascolto delle esigenze di cui ciascuno è portatore. Il sostegno materiale è assolutamente necessario; ma dobbiamo attivare e promuovere questa rete di prossimità anche per accompagnare ogni persona e famiglia. L’ambito sociale non è di chi opera nel sociale, ma è il terreno dove ogni cristiano e cittadino è chiamato a misurarsi, poiché ciascuno di noi è “custode di suo fratello”.
Occorre considerare ogni persona quel tesoro nascosto e quella perla preziosa di cui ci parla il Vangelo, che va dunque accolta e cercata come un dono di Dio, un bene assoluto che è la ricchezza di umanità che ognuno possiede. Il nostro impegno nel sociale va fondato a partire dalla centralità della persona, e non tanto dai programmi, dalle idee e dai principî. Altrimenti rischiamo di fare della burocrazia sociale e assistenziale. Ma non per questo siamo qui, e non per questo è venuto il Salvatore.
In quanto impegnati nell’ambito del sociale, non mettiamoci dunque sulla via dell’apparire, inseguendo solo l’immagine dei servizi efficienti, che costano risorse ed apparati sempre più complessi. Favoriamo, invece, una formazione del volontariato delle “corti”, ossia quel sapersi incontrare e farsi carico lì, nel tessuto quotidiano del proprio esistere, delle necessità del prossimo della porta accanto. Naturalmente, non intendo con questo negare l’importanza delle strutture, dei servizi, del personale a pieno tempo e qualificato; ma chiedo che, accanto a questo mondo del sociale così come generalmente viene considerato anche in campo pubblico, aumenti e si faccia strada il ricupero di questa base popolare del volontariato quotidiano. Peraltro, questa prospettiva potrebbe tornare utile, mi pare, anche per chi ha responsabilità pubbliche: non sono forse i servizi di base, capillarmente presenti sul territorio, quelli che consentono maggiore prossimità ed efficacia?
A partire da questa considerazione, credo potrebbe essere importante avviare in tutto il nostro territorio torinese un’iniziativa di grande respiro ecclesiale e sociale: l’Agorà della Chiesa e città metropolitana di Torino sul servizio nel sociale, inteso in senso ampio del termine. Le nostre diocesi dovrebbero farsi carico di chiamare a raccolta (convenire) tutte le componenti ecclesiali e cittadine, per verificare e discernere insieme la situazione attuale nel campo del servizio ai poveri, nel campo del lavoro, della sanità, dei migranti e per tracciare il cammino futuro del nostro comune impegno. Non possiamo, infatti, limitarci a delegare questo servizio a pochi volenterosi. L’Agorà che propongo non è un convegno nel senso classico del termine, ma un convenire in stile sinodale in cui vengono coinvolti via, via le istituzioni, le comunità, i gruppi associativi, le realtà che operano nel sociale, ogni battezzato e uomo di buona volontà. Un esame di coscienza comunitario, che investe l’ambito civile, per risvegliare l’anima del collegamento che rende sempre più unita la cittadinanza e realizza quella koinonia (comunione) che si traduce in diaconia(servizio).
Dare visibilità a questo cammino serve a suscitare l’attenzione e il coinvolgimento della base e dell’opinione pubblica, per rendere tutti edotti della reale situazione di disagio e difficoltà di un numero crescente di persone e delle loro concrete necessità. Se non prepariamo, se non maturiamo adesso questo clima di solidarietà rischiamo di trovarci, già nel prossimo anno, di fronte a emergenze economiche e sociali sempre più difficili da gestire. Ma l’iniziativa dovrebbe anche suscitare una seria verifica per la nostra Chiesa e società, chiamata a misurarsi sulle vie concrete del suo amore verso i poveri e chiunque è in difficoltà, considerati il tesoro più prezioso che Cristo ci dona per incontrarlo e testimoniarlo al mondo.
Le nostre diocesi hanno le forze, le capacità e la spinta ideale per fare tutto ciò ed alzare forte la sua voce nella nostra società, perché queste persone non siano considerate come un’opzione di volontariato, ma un compito che riguarda tutta la comunità ecclesiale e civile.
A tutti voi cari amici va il mio grazie; e il Signore, che incontrate nei fratelli e sorelle bisognosi, vi ricompensi del sacrificio di dedicare tempo e risorse a chi non ha nulla da darvi in cambio e per questo vi permette di ricevere la ricompensa da Dio, ben più grande ed efficace di quella che potreste avere dagli uomini".