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Eventi | 15 gennaio 2021, 07:41

Con Allegri a lezione di Commedia dell'Arte: "Dietro le maschere, tutta la nostra cultura" [INTERVISTA]

L'attore piemontese in streaming sabato sera per "Solo in Teatro" della Fondazione Cirko Vertigo

eugenio allegri per solo in teatro

Eugenio Allegri durante le prove per "Solo in teatro"

La stagione Solo in Teatro, ideata dalla regista e coreografa Caterina Mochi Sismondi e prodotta da Fondazione Cirko Vertigo, riparte con Il grande viaggio nella Commedia dell’Arte. Una ricca lezione-spettacolo che attraversa oltre due secoli di storia per arrivare fino ai nostri giorni, condotta, sabato 16 gennaio, alle ore 21, da Eugenio Allegri (su www.niceplatform.eu).

L’attore piemontese porterà in scena, dal palco del Café Müller di Torino, un excursus drammatizzato sulle origini e sullo sviluppo del teatro comico, inframmezzato da testi, scene e pantomime. Un colorato e vivace affresco di brani, citazioni e descrizioni di un teatro popolare ma colto, dove le maschere tipiche del genere rappresentano, pur a distanza di tempo, il punto di riferimento più nitido del teatro moderno. 

L'intero spettacolo prenderà vita in una dimensione colloquiale con il pubblico connesso da casa e, come sempre, sarà preceduto dal docu-film girato durante la settimana di residenza artistica di Allegri in teatro.

Eugenio Allegri, in un periodo in cui il teatro si reinventa nei modi e nelle forme, lei sceglie di fare un passo indietro guardando alla storia della Commedia dell’Arte, genere che ha caratterizzato buona parte della sua carriera. Come mai?

Pur essendo un patrimonio che mi porto appresso sin da quando ho cominciato a fare teatro, è la parte del mio lavoro che il pubblico meno conosce. È pur vero che c’è un momento in cui si crea un prima e un dopo, nella carriera di un artista, e per me il crinale è Novecento. Tutto il successo che ebbe, quando uscì, mi mise all’attenzione di un pubblico che, da quel momento, cominciò a seguirmi personalmente. Ma, appunto, tutto ciò che viene prima di quel momento, di almeno 10/15 anni, è oggi poco ricordato. E vale per la commedia dell’arte così come per L’opera dello sghignazzo fatta con Dario Fo nell’81 a Torino o Gli uccelli di Aristofane, o l’incontro con Lecoq. Quindi, questo tornare indietro per me è l’occasione, in realtà, di parlare qualcosa di nuovo, rispetto alla mia attività. Allo stesso tempo, dato che tanti giovani attori in tutta Italia fanno Commedia dell’Arte in maniera molto silenziosa, non avendo spazi e finanziamenti, mi sembra giusto lavorare anche sul piano informativo, arrivando a tutti.

Sarà quindi uno spettacolo in parte divulgativo e in parte performativo. Com’è stato concepito per lo streaming? La tecnologia le ha offerto un nuovo potenziale?

Lo spettacolo dal vivo rimane insostituibile, senza dubbio. È un linguaggio complessivo, totale, che non riguarda solo cosa accade sul palcoscenico, ma anche il rapporto che si crea tra attori e pubblico. Possiede per questo una sua specificità unica. È una forma in mutamento, perché la società continuamente in evoluzione ci costringe a cambiare la proiezione sentimentale del linguaggio stesso. Questo è il mio terzo appuntamento in streaming da quando è iniziato il lockdown. E ho riscoperto una cosa interessante: la telecamera ha un diverso rapporto di distanza con l’attore, mette a nudo dei dettagli che, nella sala teatrale, il pubblico di solito non riesce a vedere, come gli occhi, l’intensità dello sguardo, la mobilità del viso. Nella Commedia dell’Arte si usa la maschera, che mette molto in risalto la mobilità del corpo in generale, mentre l’occhio della telecamera indaga più a fondo e nello specifico. Fa un lavoro autoritario, seleziona per conto del pubblico cosa vedere e cosa no. Da un lato tutto questo è un limite, dall’altro è una grande opportunità, perché si riesce ad allestire un intero spettacolo collaborando attivamente con i tecnici e gli operatori, e ricostruendo ipoteticamente quello che sarà il rapporto virtuale con il pubblico. Pur tenendo in conto l’amputazione del “comos”, la comunione da cui la commedia deriva. Il comico si alimenta del rapporto con il pubblico, cambia i ritmi, le battute, i respiri. In scena, dovrò quindi immaginare tutto questo mettendo a punto le mia esperienza. Mi sono ricordato proprio in questi giorni di quanto facemmo Vacis, Baricco e io con “Totem”, in tv, nel 1998: erano lezioni di musica e teatro destinate al grande pubblico. Avevamo in presenza un pubblico di 300 persone, ma la regia televisiva ci permise di raggiungerne 1 milione, da casa. Fu un’esperienza unica.

Si aspetta quindi anche stavolta di coinvolgere una platea di spettatori più vasta, magari intercettando anche giovani e studenti?

Sicuramente parliamo di un pubblico che sceglie di vedere questa determinata cosa, perché interessato o abituale frequentatore dei teatri. Da un lato, l’apertura della rete ha creato molta confusione, dall’altro ha forgiato un’utenza che seleziona i contenuti all’interno di un'offerta stratificata e immensa. Mi rivolgo anche a tutti quei ragazzi che, a scuola, stanno studiando Goldoni senza conoscere con esattezza le fonti delle sue opere. E spero anche di toccare la sensibilità di chi, con il teatro, ha un rapporto più casuale. È  una sfida intrigante. 

L’orizzonte degli autori proposti va da Ruzante a Dario Fo. Una scelta puramente puramente cronologica o anche costruita sul dialogo con il presente? 

Mezz’ora di diretta è un terzo di quello che generalmente portavo in scena con la Storia della Commedia dell'Arte. Se parliamo di Fo, lo pratico da circa vent’anni, è un attore e autore che ha un rapporto molto stretto con il genere; non lo vedrei, in questo contesto, connesso con la società attuale. Il discorso sulla valenza del teatro popolare come teatro colto me la porto dietro da sempre, non è costruito per l’oggi. Ovviamente questo spettacolo viene aggiornato di continuo, ogni volta che va in scena. Ruzante, ad esempio, l’ho affrontato fin dall’inizio della mia carriera e mi ha accompagnato sempre. Fo diceva di sentirsi come lui sulla scena, un’affermazione molto criptica, che lasciava interdetti gli interlocutori. Tutti lo consideravano un grande maestro e drammaturgo, ma praticamente nessuno conosceva Ruzante. Così come Folengo, che ha scritto un solo libro, sì, ma fondamentale per la storia del teatro, perché ha inventato il latino maccheronico, poi divenuto la lingua di Balanzone. La nostra letteratura ha completamente dimenticato questi nomi. Quando Fo sperimenta il gremmelot, lo fa riferendosi al primo grande Arlecchino in Francia, Dominique Biancolelli. Insomma, tutta la nostra cultura trova un punto di riferimento importante nella prima grande forma di teatro moderno nella società occidentale, che è appunto la Commedia dell’Arte. Ogni volta che lo scopro, dal di dentro trovo la forza di riproporlo al pubblico e chiedergli un confronto, un ritorno, cercando di stimolare la curiosità e la voglia di approfondire certi temi. 

Tornerà presto a insegnare Commedia dell'Arte anche dal vivo?

Da diversi anni collaboro con l'Atelier Teatro Fisico di Philippe Radice, che ritengo uno straordinario e rigorosissimo maestro. Avevamo in programma un laboratorio a novembre, ma l'emergenza sanitaria ci ha costretto a spostarlo a febbraio. E' un tipo di attività che prevede lo scambio delle maschere e il contatto tra gli attori nella fase preparatoria, non è fattibile se non sussistono le condizioni necessarie. Aspettiamo di capire come evolve la situazione a febbraio. Nel frattempo ho diretto un gruppo di giovani attori a Venezia e Padova nel Teatro comico di Carlo Goldoni, che vede protagonista Giulio Scarpati. Abbiamo terminato le prove il 20 dicembre. Speriamo di partire con la tournée a maggio. 

Manuela Marascio

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