Dodici titoli di marcato stampo drammatico ed esistenziale, che attraversano scarti generazionali, folklore e culture identitarie, lutti familiari e discriminazioni sociali. Tante le tematiche dei lungometraggi in concorso nella sezione Torino 38 del Torino Film Festival, che oggi terminiamo di presentare.
Regina, di Alessandro Grande (Italia, 82')
Esordio nel lungometraggio felicemente riuscito, con una bella storia familiare in una Calabria inedita, lotana dai soliti cliché e, allo stesso tempo, aderente a quella ricerca di futuro e riscatto tipica degli intrecci narrativi fioriti nel sud Italia.
Brava e convincente la giovane protagonista, Regina (Ginevra Francesconi), una quindicenne con la passione per la musica, che ha perso la madre molti anni prima e ora, adolescente matura, sogna di fare la cantante. A supportarla, riversando su lei ogni energia e speranza residua, il padre, Luigi (un ottimo Francesco Monanari), che ha ormai assunto in sé anche la figura materna mancante. Un legame molto solido, tenero e potente, che viene tutavia sconvolto a seguito di un incidente in barca, dove un sommozzatore perde la vita. Evento tragico e imprevedibile che travolge all'improvviso la quotidianità del piccolo nucleo familiare e delle persone che vi gravitano attorno, investendo la ragazza di rinnovato coraggio e innescando nel padre una corsa contro il tempo per non perderla.
Un film che, con ritmo ben sostenuto, scava psicanaliticamente nel rapporto intergenerazionale: "Sono partito dal saggio di Massimo Recalcati Il complesso di Telemaco, nel quale l’autore affronta l’assenza e la scomparsa della figura del padre - racconta il regista, Alessandro Grande -. Telemaco, infatti, lo attende per poter ristabilire in casa quella che Recalcati chiama la legge della parola, la capacità di svolgere una funzione educativa verso i propri figli. L’arrivo di un padre maturo e pronto all’ascolto è un bisogno fondamentale per le generazioni dei figli di ogni tempo. Sin dai primi momenti della fase di scrittura ho sentito l’opportunità di fare un film sincero e universale, che potesse arrivare al cuore dello spettatore raccontando una storia sospesa fra il film di genere e il romanzo di formazione, in una Calabria insolita e personale".
Hochwals, di Evi Romen (Austria-Belgio, 107')
"Ragazzi di vita" allo sbando, vittime di chiusura mentale e geografica, trascinati dallo sballo, dalla camuffata trasgressione o da un'ideologia lontana. Un film carico di una latente tensione destinata a implodere, dove seguiamo un iconico protagonista, Mario (Thomas Prenn) mentre sogna disperatamente di fare il ballerino scontrandosi son lo sbarramento del piccolo paese austriaco in cui vive assieme alla madre. E' tossicodipendente e patisce grosse difficoltà economiche, e il ballo rappresenterebbe l'unico dionisiaco sfogo possibile, via dalla realtà. Mentre si trova a Roma, in un locale gay, viene coinvolto in un attacco terroristico di matrice islamica: il suo amico, Lenz, muore, mentre lui resta illeso. Tornato a casa, viene accolto con indifferenza dai compaesani, una reazione che finisce per destabilizzarlo ulteriormente. L'incontro con Nadim, musulmano, che, assieme ai fratelli, lo aiuta a combattere la propria dipendenza, lo spinge a convertirsi, scatenando lo sdegno dell'intera comunità.
"Una nuova forma di neorealismo - spiega la regista Evi Romen, nata a Bolzano ma formatasi alla Filmakademie di Vienna - si mostra nelle sembianze di un giovane ribelle che si batte tenacemente senza mai arrendersi, neppure quando viene coinvolto in un tragico attacco terroristico. Il mio cuore batte per tutti quei giovani che prendono sempre le decisioni sbagliate senza assecondate mai le norme prestabilite. Il mio cuore batte per Mario, uno di questi ragazzi, che in un’altra vita, forse, sarebbe stato un ottimo ballerino".
Suggestiva e poetica la corsa finale in mezzo ai boschi, un ritorno alla natura che allude alla liberazione panica di istinti repressi e desideri irrealizzati.