Il potere delle storie. Questo rappresenta il nuovo film di Stefano Di Polito, Le Mille Notti.
La pellicola, tutta girata dal regista nel suo quartiere, Aurora, insieme a un gruppo di giovani attori non professionisti, sarà presentata domenica 19 marzo alle ore 19 alla presenza del sindaco Stefano Lo Russo al Cinema Massimo. Il tutto nel contesto di una sezione speciale del Glocal Film Festival dedicata alle comunità.
Ispirato alle novelle mediorientali di Le mille e una notte, rappresenta per il regista il manifesto dello storytelling: “Le storie salvano le vite, il mio obiettivo era creare una storia che abbia valore nella società”.
Protagonisti del film, dedicato alle nuove generazioni di italiani, sono Maali Atila, Adama Diack, Awa Diack, Luisa Zhou, Syed Ashgar e Francesca Augello. Sei ragazzi torinesi, cinque con background migratorio, figli di immigrati dal Marocco, dal Senegal, dalla Cina, dal Pakistan e una con genitori trasferiti dal Sud Italia.
Il film è ambientato in un laboratorio cinematografico che ha coinvolto gli abitanti del territorio a partire dal progetto europeo ToNite. Alterna scene di fiction ispirate alla raccolta di racconti - in cui hanno partecipato altri ‘volti noti’ del quartiere, come il celebre kebabbaro Faouzì, il venditore di noccioline Tahar, la presidente dell’associazione cinese Zhi Song, lo storico abitante Vitto Taus - a storie di vita dei giovani protagonisti.
Come accadeva per Sheradzade e Dinnerzade, i sei protagonisti si recano a turno dal Sultano (sul lungo Dora) per raccontare le loro storie con la speranza di essere ascoltati e graziati.
“Ci sono cinque notti nel film, legate a un elemento del fiume, rappresentano una parte che c’è in ogni essere umano: di notte le stelle, sono il destino sotto cui ognuno di noi nasce e che deve consolidare, poi c’è l’acqua, che è la trasformazione cui siamo sottoposti. Sono storie che cercano di unire le persone”.
“Le mille e una notte sono davvero il quartiere Aurora. Molti dei giovani hanno nonni che gli raccontavano quelle storie perché contengono molti insegnamenti. Mi piaceva l’idea che il quartiere fosse rappresentato attraverso le favole che provengono da quel mondo”.
Il regista di Mirafiori Lunapark torna dunque a parlare di quartiere e di periferie.
“Mi piace raccontare i luoghi e renderli fantastici anche per cambiarne un po’ la percezione. Da quando vivo ad Aurora mi è venuta voglia di raccontare quel posto che mi ha fatto davvero del bene.
Mi ha insegnato molto. Viene spesso descritto come luogo del degrado e del disagio, quando è un luogo molto ospitale e spero che continui a esserlo”.
I protagonisti non sono attori professionisti ma giovani del posto. Perché questa scelta?
“Sono un gruppo di ragazzi con cui già lavoravo per altri progetti del quartiere. La storia è costruita su di loro. Un lavoro fatto insieme a partire dalle loro storie e da una condizione di vita che li accomuna. Oggi sono ancora considerati stranieri anche se sono nati qua. E questa percezione ce l’hanno non tanto nel quartiere, dove sono a casa, quanto fuori. Ho davvero cercato di far emergere delle cose che tanti possono capire, ma che loro vivono in maniera amplificata”.
Obiettivo del film è proprio far emergere il grande potenziale della multiculturalità.
“Hanno potenzialità enormi grazie a due culture diverse, anche se per loro la strada è molto più complicata della nostra. Volevo raccontare storie intense ma che ci unissero. Perché la loro salvezza non è la loro ma quella di tutti - e sottolinea -. Se fossimo davvero ambiziosi rispetto alla multiculturalità la città potrebbe contare su di loro e potrebbe diventare fiera di essere una città di immigrati, ma l’unico modo è che abbiano un ruolo e che parli delle loro comunità. Bisogna tenere alta la guardia, ma vedere la città che diventa multiculturale mi emoziona tantissimo”.
Il tema del razzismo è emerso spesso nelle cronache recenti di tutta Itali, ma Torino è razzista?
“Non credo che Torino sia una città razzista, anzi è un modello di convivenza e di inclusione. Dovrebbe compromettersi un po’ di più, credere che quella è la strada principale per cambiare, la multiculturalità, lo farebbe da prima città. A Torino puoi vivere come sei, mentre in altri contesti ti devi adeguare. Il rischio è però di diventare invisibili, cioè di non contare realmente nella città".
Come fare per includere questi ragazzi e non lasciare che rimangano intrappolati in contesti pericolosi come quelli delle dilaganti baby gang?
“Credo si debba lavorare con le comunità e con i genitori, capire qual è il problema reale. Per farlo servono queste nuove generazioni che hanno un peso in più nel farsi interpreti di queste trasformazioni. Si deve intervenire dall’inizio analizzando la società, le problematiche, le parole giuste da dire, gli attori cioè i soggetti da attivare, destinare tante risorse e raccontare i casi positivi, denunciare la discriminazione”.
Il film promette già il tutto esaurito anche perché proprio le comunità si sono messe a fare rete.
“Mi auguro che sia compreso nella sua semplicità e che sappia meravigliare per la ricchezza umana che mette insieme. Vorrei che fosse di incoraggiamento per questi ragazzi a raccontarsi. Che diventi uno strumento per loro, ma che possa diventarlo anche per altri ragazzi nelle scuole, nei quartieri, nei circoli sociali”.
Oltre alla proiezione, passeggiando sul Lungo Dora e attivando l’app Tellingstones, sarà inoltre possibile ammirare i materiali extra del film, in un progetto che unisce ancora di più la favola alla realtà e invita a vivere e a conoscere il quartiere Aurora senza pregiudizi scoprendo ‘storie che uniscono’.